Hara è uno di quei termini piuttosto usati nel mondo delle discipline di origine giapponese (Shiatsu, arti marziali ed altre cose ancora). Al riguardo è importante citare una frase
circa la malattia e la guarigione tratta da un libro di un autore
tedesco, Karlfried Von Durckheim. La frase in questione dice: “Non
vi è malato la cui guarigione non sia ostacolata anche da una intima
tensione o contrazione. Del pari, non vi è guarigione che non sia
agevolata dal risolversi di tali nodi. Proprio nella misura in cui
tensioni siffatte sono connesse con la paura di un Io preoccupato o
protervo, esse si sciolgono quando l’uomo apprende l’arte di
mettere da parte l’Io e di affidarsi a quelle forze più profonde
alle quali l’Hara certamente lo apre.”
Nei corsi di Shiatsu, per esempio, gli allievi sono invitati ripetutamente all’uso di Hara
nella tecnica di pressione. Ritengo però che, in genere, non sia
abbastanza chiaro a cosa ci si riferisce quando si fa uso di questa
parola. Credo che molti, tra i cultori di queste ‘arti’ di
origine giapponese, ritengano che l’idea di Hara si esaurisca
nell’ambito delle tecniche specifiche delle loro discipline e che
non possa avere attinenza con nient’altro. Quindi che si tratti di
qualcosa che riguarda solo ed esclusivamente quel loro mondo
particolare. Pochi forse pensano che l’essere in contatto con il
proprio Hara possa andare ben oltre la specificità della loro ‘arte’
e possa avere il significato di un atteggiamento più ampio che
coinvolge il nostro modo di essere e di relazionarci con la vita.
L’Hara trova applicazione anche nella quotidianità di molti piccoli gesti.
Spiego, ad esempio, che c’è sicuramente un ‘modo Hara’ di
stringere la mano a una persona, oppure di abbracciarla, o di
porgerle un oggetto, di servirle una tazza di thè. Credo anche che ci sia
un ‘modo Hara’ di sferrare un pugno o di dare una carezza. E
penso che questa modalità permetta di rapportarci con l’altro in
un modo molto più autentico e più sentito. E’ come se, nel
rapporto con l’altra persona, manifestassimo una ‘presenza’ ed
una qualità di gran lunga superiori allo standard abitudinario.
Questo ‘modo Hara’ di essere e di rapportarsi è un miscuglio di
più cose: comprende il manifestare una certa ‘energia’ nei gesti
che facciamo e comprende anche una certa ‘intenzionalità’ e una
certa ‘determinazione’ nel nostro agire.
Questo dell’agire con Hara è un modo
che si colloca oltre le parole e oltre la mente razionale e che
l’altra persona però riesce a cogliere molto bene. A volte, in
quella stessa persona, capita di leggere addirittura un moto di
stupore. Forse perché l’atteggiamento con il quale ci proponiamo
non è troppo usuale nella vita di relazione e l’altro ne rimane
quasi turbato (e in qualche modo anche affascinato). Nell’ambito
della pratica dello Shiatsu, questo modo di essere corrisponde a quel
qualcosa in più che possiamo sentire in una pressione e che la
riempie di quella qualità che la rende di molto superiore rispetto
ad un’altra. Questi sono però solo alcuni aspetti abbastanza
marginali. Continuando nel nostro discorso vedremo che l’essere in
contatto con Hara può significare molto di più di quanto abbiamo
finora detto.
Come ben sappiamo la parola è di
origine giapponese. Il modo come questa parola viene usata in alcune
espressioni della lingua giapponese è molto interessante ai fini del
discorso che stiamo facendo. Una di queste espressioni, per esempio,
è la seguente: “Hara no aru hito”, che letteralmente tradotta
significa “L’uomo che possiede Hara”. Il senso è quello di
indicare colui che costantemente nella propria vita è in
una dimensione di collegamento con il proprio Hara. In una traduzione
ancora più letterale la frase in questione diventa: “L’uomo che
possiede un ventre”. Detto questo possiamo allora considerare la
parola ‘ventre’ (o anche addome, o pancia, ecc.) come una
traduzione possibile della parola giapponese Hara. E’ evidente però
che, poiché la pancia è un bene di tutti, il significato che i
giapponesi vogliono dare a questo ‘Ventre’ va ben oltre questa
particolare zona del nostro corpo. Anche se, lo vedremo, tutto
l’insieme dei concetti legati alla parola Hara trova poi un suo
riferimento ed una sua collocazione ‘anatomica’ proprio in zona
addome, esattamente in un’area interna e profonda che si trova
collocata a circa quattro dita sotto l’ombelico.
Il nostro autore tedesco, che ho citato
in apertura, è un esperto di cultura giapponese ed ha dedicato un
intero libro su questo argomento – Hara: il centro vitale
dell’uomo secondo lo Zen. In questo
libro troviamo un commento che può aiutarci a capire meglio questa
espressione giapponese. Egli scrive:
“il significato complessivo di
questa espressione (Hara no aru hito) è l’uomo che possiede un
centro. Colui che manca di un centro perde facilmente
l’equilibrio, mentre chi lo ha lo conserva sempre. In più, in lui
vi è qualcosa di calmo e che tutto abbraccia. Ha come una ampiezza
umana". L’espressione Hara no aru hito significa anche questo,
significa un uomo che ha una grandezza d’animo, che è generoso e
che ha ampie vedute. L’uomo che ha un centro giudica in modo
sereno ed equilibrato, ha il senso di ciò che è importante e di ciò
che non lo è. Lascia tranquillamente che la realtà gli si avvicini,
nulla lo spaventa, nulla altera la sua calma prontezza ad intervenire
in modo adeguato. Non si tratta di insensibilità ma dell’effetto
di una data costituzione interiore da lui realizzata, caratterizzata
da una elasticità in profondità che gli permette di prendere
posizione nel modo giusto di fronte ad ogni situazione, con
naturalezza e con calma. In un dato frangente sa quel che deve
fare, non lasciando che nulla lo sconvolga”.
Diversamente, continua Von Durckheim,
“l’uomo che non possiede un ventre (che non possiede
Hara) è esattamente l’opposto di tutto ciò. Gli manca una misura
divenuta per lui una specie di seconda natura. Così egli reagisce a
caso, in un modo puramente soggettivo, non distinguendo ciò che è
essenziale da ciò che non lo è. Il suo giudizio non si basa sulla
realtà ma risente di elementi contingenti personali, come lo stato
d’animo, l’umore, lo stato dei suoi nervi. Si spaventa ed è
nervoso, non perché sia particolarmente sensibile o i suoi nervi non
siano a posto ma perché gli manca l’asse che gli permetterebbe di
‘non uscire dal proprio centro’ e di assumere in ogni situazione
un atteggiamento adeguato agli stimoli che riceve e conforme alla
realtà. E’ anche un individuo molto strutturato e rigido, mosso
unicamente dalla testa oppure dall’emotività. Di fronte ad una
situazione grave reagisce con ottusa ostinatezza, o resta senz’altro
disorientato”.
In questa visione Hara è quel qualcosa
che "centra" un individuo e che gli conferisce un equilibrio
nella vita. Un equilibrio a tutto campo: sia nell’aspetto
propriamente fisico (Hara corrisponde anche al nostro ‘baricentro’,
cioè a quel punto in cui si concentra tutta la massa del nostro
corpo) che in tutte le situazioni della vita nelle quali possiamo
trovarci, e nelle quali è importante essere ‘centrati’ perché possano venire affrontate nel modo più appropriato. Questa
condizione, spiega ancora Von Durckheim, “…solo in parte è una
disposizione congenita; essa è soprattutto il risultato di una
esercitazione e di una disciplina continue, quindi il frutto di uno
sviluppo personale di cui ognuno di noi ha la responsabilità.”
Quindi suggerisce che anche ciascuno di noi, allenandosi ed
esercitandosi, ha la possibilità di fare proprio questo modo di
essere.
Mario Vatrini, nel suo libro “Strategie
di Shiatsu”, dedica un breve capitolo all’argomento che stiamo
affrontando. Il titolo è ‘Haragei – l’arte dell’addome’.
Egli scrive: “Haragei equivale al saper risolvere un problema
secondo un approccio irrazionale….. Per i Giapponesi l’addome è
la sede dell’istinto, essi sono individui ipersensibilizzati a
giudicare i pensieri e gli stati d’animo altrui non tanto per i
contenuti verbali ma per le sensazioni che a loro volta ne ricavano.
Ne consegue che le loro relazioni interpersonali sono
fondamentalmente intuitive e viscerali, piuttosto che logiche o
razionali.….Allo Shiatsuka (che vuole rifarsi all’uso di Hara)
viene chiesto di escludere quegli schemi di pensiero e di
comportamento a cui abitualmente si riferisce, per contare su
qualcosa che usa di rado: la totalità delle sue percezioni.”
L’invito è quindi quello di
abbandonare gli aspetti più logici e razionali del nostro
comportamento al fine di stabilire una condizione che vada oltre
questi soli aspetti, e che Vatrini definisce la totalità delle
nostre percezioni. Il rapporto che viene ad essere stabilito
(mantenendo uno stato di coscienza vigile nella ‘totalità delle
nostre percezioni’) si colloca in quella particolare condizione che
i giapponesi chiamano Mushin (in cinese Wu Xin). In
questo caso il significato più letterale di queste espressioni è
‘assenza di mente razionale’. Cioè una condizione dove tutto
‘avviene’ (dove tutto è percepito, elaborato e vissuto) in una
dimensione che non si ferma al solo aspetto della razionalità.
Corrisponde a ciò che viene definito ‘il pensare e l’agire con
la pancia’ che sembra essere, per quel che finora si è detto, una
caratteristica particolare del popolo giapponese ma che in realtà
non è del tutto assente, almeno come concetto, anche dalle nostre
parti. Al punto che anche da noi, nel nostro linguaggio, il termine
‘viscerale’ sta ad indicare esattamente questo stesso modo
‘totale’ e profondo di partecipare e vivere le cose. Una madre,
ad esempio, in qualsiasi parte del mondo, vive il proprio figlio in
modo viscerale. Per dire di un modo ampio e totale che va oltre la
sola razionalità e che comprende corpo, mente e cuore. Questa è una
condizione che possiamo riconoscere non solo ad una madre nei
confronti del proprio figlio ma che possiamo trovare anche tra due
amici, o tra due persone che si amano. E’ quindi una condizione che
può esistere tra tutte le persone, purché il rapporto sia profondo,
purché sia cercato, voluto e mantenuto in profondità.
Riprendendo le parole di Vatrini,
possiamo pertanto affermare che Hara non è solo, per l’individuo, un "centro che lo sostiene", ma è anche un "centro di
elaborazione" che gli permette una comprensione più ampia ed
‘istintiva’ di tutta la realtà che lo circonda. In molte opere
della cultura giapponese (romanzi, film ecc.) questa visione di Hara
viene spesso riproposta ed evidenziata. Non si pensi però che questa
condizione sia una caratteristica esclusiva di quel popolo. Se è
certamente difficile, per l’uomo di oggi, vivere questa dimensione,
è vero però che questa è la condizione che in qualsiasi parte del
mondo ha sempre vissuto il guerriero, o il cacciatore che si muoveva
nella foresta e che sapeva bene di doversi muovere nella totalità
delle proprie percezioni, correndo il rischio, diversamente, di
passare da cacciatore a preda e di perdere la propria vita.
Tornando
allo Shiatsu, l’uso di Hara non è solo quel qualcosa che favorisce
una qualità diversa nella pressione. Permette altre cose ancora. Ad
esempio, muovendoci nella totalità delle nostre percezioni, possiamo
sentire l’energia che scorre in un canale, la collocazione esatta
di un punto, cogliere una condizione energetica (vuoto/pieno ecc.) ed
altro ancora.
Mario Vatrini, nel suo libro, afferma
che esiste qualche divergenza sull’esatta posizione di Hara. Ne
suggerisce poi la collocazione in una zona (interna) compresa tra due
e quattro dita sotto l’ombelico. Per chi ha qualche familiarità
con l'agopuntura della Medicina Tradizionale Cinese diremo che
corrisponde alla zona compresa tra due punti dislocati sul Meridiano
energetico di Vaso Concezione. Essi sono Qi Hai (VC 6: Mare
del Qi – Kikaiin giapponese) e Guan Yuan (VC 4:
Barriera, o passaggio, o cancello, della sorgente originaria
– Kangen in giapponese. Punto Mu di Intestino Tenue). La
zona è quella. Forse ‘Guan Yuan’ (il 4 di VC, a quattro dita
dall’ombelico) è la collocazione più esatta. Vedremo infatti che
anche nella lettura degli ideogrammi di Hara e di Guan
Yuan (o Kangen) sono presenti le maggiori affinità.
Prima di passare ad analizzare le
caratteristiche energetiche di questi punti è interessante prendere
in esame proprio gli ideogrammi che li rappresentano. Come sempre,
quando si vanno a leggere ed interpretare in tutte le loro sfumature,
permettono di comprendere molte cose. Esistono due ideogrammi che esprimono entrambi
Hara, pur se con qualche differenza tra di loro. Cominciamo con
l’esaminare il primo:
Hara = ventre |
Questo ideogramma, che si legge Hara
(ma anche ‘Fuku’ in una pronuncia più simile a quella cinese) ha
il significato di ‘ventre’ (addome, pancia). E’ composto di più
segni ideografici: a sinistra un radicale che significa ‘carne’,
o anche ‘un corpo fatto di carne’ (per indicare che si tratta di
un concetto che è poi ‘concretizzato’ in un corpo umano).
L’ideogramma di destra è composto di due segni: quello superiore
indica un sole che sorge, quello inferiore una mano che si apre.
Questi due segni (nel loro essere insieme) stanno ad indicare il
rinnovarsi della vita.
Quindi, in questo primo ideogramma,
Hara è Ventre inteso come quella zona del corpo dove l’energia
della vita si rigenera e si rinnova. E’ da intendere proprio come
quella parte del nostro corpo (la zona addominale) che è sede di
tutti quei processi indispensabili al mantenimento della nostra
esistenza. Il sole che sorge sta ad indicare il ripetersi ed il
rinnovarsi ogni giorno del ciclo vitale, mentre la mano che si apre
può forse avere il significato dell’accogliere questo continuo
rigenerarsi. Il tutto come un fatto molto concreto in un corpo umano.
Analizziamo ora invece l’altro
ideogramma la cui lettura è sempre Hara ma scritto con segni
diversi:
Hara = radura, distesa incolta |
Questo ideogramma si legge sempre Hara
ma assume significati diversi. In questo caso troviamo espressa una
‘radura’, una distesa incolta e un po’ selvatica. “Un luogo
selvatico che accoglie e protegge tante forme di vita animale e
vegetale”. Inoltre sta
anche ad indicare "quelle radure dove cominciano a formarsi quei
ruscelli che poi vanno ad irrorare i campi”. Credo possano essere
intesi i cosiddetti ‘fontanili’ (come vengono chiamati dai nostri
contadini), quelle sorgenti d’acqua di pianura importantissime per
l’irrigazione dei campi, chiamate anche ‘risorgive’.
In questo secondo ideogramma, pertanto,
con l’idea delle ‘risorgive’, troviamo il concetto di
‘Sorgente’. Infatti l’altra lettura (in cinese ‘nipponizzato’)
di questo ideogramma è ‘Gen’ (corrispondente al cinese ‘Yuan’)
il cui significato è proprio ‘Sorgente’ (o anche ‘Fonte
Originaria’, ‘Origine’ecc.). Troviamo poi questo ideogramma
contenuto nel nome cinese di VC 4 (Guan Yuan: ‘Barriera
dell’energia originaria’ o ‘Cancello della sorgente originaria’
ecc.) dove si accompagna all’ideogramma ‘Guan’ (Kan in
giapponese – Kangen è sempre VC 4) che indica appunto
una barriera, un cancello o un passaggio obbligato.
Il tutto ci riporta quindi, anche
concettualmente, a questo punto che è situato circa quattro dita
sotto l’ombelico e che forse possiamo considerare proprio come il
centro di quella zona del nostro corpo legata ad Hara. Proviamo ora
ad individuare le caratteristiche energetiche di questo punto e di
altri punti presenti nella stessa zona analizzando quanto ne dicono i
testi della Medicina Tradizionale Cinese. Nei testi che ho avuto modo
di consultare Guan Yuan viene dato come importante punto di riunione
dei tre Canali Yin del basso (Milza, Fegato e Rene). Ha quindi un
grande rapporto con lo Yin, cosa che gli torna anche abbastanza
naturale essendo Vaso Concezione il ‘Mare dello Yin’ ed avendo
questo Canale Straordinario la caratteristica del ‘prendersi
carico’ della vita.
Il campo d’azione di questo punto è
molto ampio e importante, esso "nutre lo Yin ed il Sangue, tonifica
(e giova in generale) la Yuan Qi (energia originaria), tonifica i
Reni, rafforza lo Yang, regola l’Utero, calma lo Shen e radica lo
Hun”. Questa influenza ‘sedativa’ sugli aspetti spirituali di
Cuore e Fegato è naturalmente dovuta anche alla sua forte azione
sullo Yin, in una logica di equilibrio Yin/Yang. Risponde quindi,
come azione generale, a tutto quanto ci potevamo aspettare, dato il
suo rapporto con questa realtà molto profonda legata alle energie
‘originarie’. Secondo un testo americano – Grasping the Wind –
questo punto è "a via di passaggio del Qi originario,
l’incontro dello Yin e dello Yang originari, ed il posto dove il Qi
originario è immagazzinato e conservato…. E il suo nome
corrisponde al tentativo di esprimere tutte queste idee.” Sempre lo
stesso testo propone anche un elenco di ‘nomi alternativi’ che
sono a volte usati per definire VC 4. Tra i molti, che vanno da
‘Cancello della vita’ a ‘Porta del bambino’ (per
sottolinearne le funzioni ed i molteplici rapporti, ad es. con
l’Utero), una denominazione importante è ‘Dan Dien’ o ‘Campo
del Cinabro’. (Il punto infatti corrisponde anche al Dan Dien
Inferiore).
Anche nella tradizione dello Yoga la
zona è importante. Per qualche autore corrisponde alla zona del 3°
Chakra, che
posiziona questo Chakra due dita sotto l’ombelico). Il nome del 3°
Chakra è ‘Manipura Chakra’, che tradotto significa ‘La Città
dei Gioielli’. Manipura è ritenuto un centro importante per il
risveglio della Shakti (Energia). Il nome ‘Città dei Gioielli’
sta ad indicare l’importanza di questo Centro, dal quale si dice
abbia inizio il cammino evolutivo dell’uomo verso i ‘piani alti’
della coscienza. (Nei primi due Centri sottostanti Manipura sono
invece predominanti le caratteristiche più istintivamente ‘vitali’:
sessualità ecc.).
E’ interessante notare come l‘area
di questo punto, che viene anche chiamato “Cancello del
Fuoco della Vita”, nella tradizione indiana è considerata legata
all’Elemento Fuoco, elemento molto importante per il risveglio e la
realizzazione personale. Nella mitologia yogica, inoltre, Manipura è
considerato come il ‘livello celestiale dell’esistenza’.
Tornando invece all'agopuntura, sempre nella zona possiamo
segnalare un altro punto che ha caratteristiche piuttosto simili a VC
4. Si tratta di Rene 13 (Qi Xue: ‘Foro – o Caverna – del Qi’)
localizzato lateralmente a mezza distanza da VC 4. questo punto "può essere usato per tonificare in modo
profondo i Reni ed il Jing del Rene (come Guan Yuan – VC 4) grazie
anche al fatto di essere un punto del Chong Mai, che fa circolare il
Jing del Rene.” ‘Grasping the Wind’ ne parla come un punto di
manifestazione del Qi renale e dice che nella tradizione anche qui
vengono assegnati nomi diversi allo stesso punto: ‘Porta del
Bambino’ al punto di destra e ‘Cancello dell’Utero’ a quello
di sinistra. Sono questi dei nomi che avevamo già trovati in Guan
Yuan, quindi possiamo ancora rilevare una certa ‘parentela’ tra
questi punti che risiedono in questa zona legata all’Hara.
Un altro punto importante che si
riferisce sempre a quest’area è VC 6 (Qi Hai: ‘Mare del Qi’)
che troviamo posizionato circa due dita sotto l’ombelico.
Questo è "uno dei maggiori punti del corpo, con un forte
effetto sul Qi e lo Yang. Può essere usato per un forte esaurimento
fisico e mentale e contro la depressione. Tonifica inoltre la Yuan Qi
e lo Yang del Rene.” E’ un punto che reagisce molto bene alla
tecnica di moxibustione (riscaldamento di aree cutanee) ed è ottimo per quei pazienti che hanno la
sensazione che ogni cosa nella vita sia una fatica. Quindi possiamo
definire anche questo un forte punto di ‘rigenerazione’. Il
nostro testo americano lo dà come zona di grande riserva del Qi di
tutto il corpo ed afferma che “…nelle pratiche Taoiste di
meditazione il respiro viene portato in questa zona ed il Qi viene
qui immagazzinato.” Tra VC 4 e VC 6 abbiamo poi il punto Mu di
Triplice Riscaldatore (VC 5 Shi Men: Porta di Pietra) che, anche per
via del suo legame col T.R. (che è ‘Via maestra’ della Yuan Qi)
ha una forte influenza sulla questa energia originaria: “stimola
la circolazione della Yuan Qi negli organi e nei meridiani". Rileviamo inoltre come anche Shi Men abbia tra i suoi
nomi alternativi "Campo del Cinabro" e "Cancello della vita".
Riassumendo quindi le caratteristiche
energetiche generali di quest’area, ne rileviamo una forte
relazione con le nostre energie originarie (sempre abbiamo trovato
riferimenti alla Yuan Qi). E’ un’area fortemente collegata con i
Reni (come sede del Jing originario) e di grande rapporto con lo Yin
e lo Yang del nostro organismo. Inoltre, in tutti i punti che abbiamo
potuto analizzare, abbiamo sempre trovato l’idea del rinnovamento e
della rigenerazione che avevamo avuto modo di leggere anche negli
ideogrammi. Credo però che questa zona non ci apra solo ad un
contatto con le nostre “Grandi Energie”, cioè le nostre energie
costituzionali profonde. Nella citazione di Von Durckheim dalla quale
siamo partiti, circa la malattia e la guarigione, si parla di Hara
come di una possibile apertura a forze ancora più nascoste, profonde
e potenti. Molte sono le pagine che Von Durckheim dedica nel suo
libro a questa ipotesi, da queste pagine possiamo partire per
un’ultima riflessione sull’Hara.
Il nostro autore tedesco lascia
intendere che la Via che porta allo sviluppo di questo nostro ‘Centro
energetico’ ci apre a forze profonde e misteriose. Queste forze
sembrano andare ben oltre le nostre potenzialità’ individuali, qui
ed ora (intendendo con questa espressione le nostre caratteristiche
energetiche costituzionali prese così come sono in un determinato
momento della nostra vita). Egli afferma infatti che l’uomo che
dispone di Hara non è rimesso solamente a sé stesso, in quanto
“questo ancorarsi nel Centro assicura all’uomo una forza che
lo mette in grado di padroneggiare l’esistenza in modo diverso di
quanto gli sarebbe possibile per mezzo del solo "Io". E’ una
forza che sostiene e che rinnova l’essere in maniera misteriosa,
una forza che ordina e che dà forma, che risolve e rende interi, che
unifica”. Affidandosi ad Hara, dice ancora, l’uomo “mette
le proprie capacità al servizio di una forza profonda che compirà
per lui l’opera e l’azione quasi senza che egli intervenga. Ma
l’attivazione di codesta forza ha per premessa l’ancoraggio
dell’uomo all’Hara, nel Centro libero dall’Io”.
La Via che consente lo sviluppo di Hara
permetterebbe quindi all’uomo di vivere questa forza nel suo
duplice aspetto: come una forza speciale che può usare nella sua
vita nel mondo e che, nel contempo, gli permette di entrare in
contatto con le energie metafisiche della sua essenza più profonda.
Questo contatto, secondo Von Durckheim, è il senso più profondo di
Hara. E il percorso che un individuo compie in questa Via di ricerca
e di allenamento per lo sviluppo di Hara ha il senso di un percorso
in una ‘Via Interiore’ che consente “l’unità con l’Essere
e l’Essenza sovraumana”. Quindi il contatto profondo con Hara
permetterebbe all’uomo di rapportarsi con una dimensione più
ampia, aprendolo a quella che viene definita “la Grande Vita che
sorregge e protegge”. In questa dimensione egli verrebbe ad
acquisire un nuovo sentimento del vivere e il senso di una nuova
forza e di una nuova ‘vicinanza’. “Non è – continua Von
Durckheim – una forza che ‘si ha’ ma una forza nella quale
‘si è’ . In essa l’uomo percepisce la sua partecipazione ad un
‘Essere’ a cui, nel senso più profondo, appartiene e a cui è
più legato che non al mondo. Sente anche che essa non costituisce
solamente il fondo vero della sua vita ma altresì il principio più
profondo dell’intero Universo.”
E’ interessante notare come in molte
affermazioni di Von Durckheim ritornano quei concetti di ‘Sorgente’
e di ‘Origine’ che abbiamo continuamente avuto modo di leggere
negli ideogrammi di Hara e negli agopunti che abbiamo analizzati, pur
se nelle sue parole intendono assumere significati molto più ampi.
Scrive infatti che “….E’ come se grazie all’Hara l’uomo
percepisse ciò che esso è nel senso primordiale; come se egli
scoprisse quella scaturigine profonda della propria natura. Solo
l’emergere di questa natura originaria e il contatto con l’Essere
che essa stabilisce apre all’uomo la Via verso la sua vera
autorealizzazione” (nella tradizione Yoga, d’altra parte,
avevamo visto che l’aprirsi di Manipura Chakra permette l’inizio
del cammino evolutivo dell’uomo verso i piani alti della
coscienza).
L’ultima parte del libro di Von
Durckheim è poi dedicato all’importanza della ‘pratica’, e in
queste righe leggiamo un’affermazione di grande importanza:
“non si capisce come ai nostri
tempi si pensi che si possa prescindere da una pratica quando si
tratta di aprirsi una Via verso la trascendenza”.
Secondo le affermazioni di Von
Durckheim, quella di Hara è quindi anche una grande forza
trascendente, della quale non è certo facile dire cosa esattamente
sia. Però, egli scrive, “essa si manifesta quale forza cosmica
in date varietà dell’esperienza vissuta e può venire assunta in
una costituzione interiore grazie alla quale l’uomo per un lato la
vive, dall’altro può dimostrarla nel mondo”. Riflettendo su
queste pagine non si può fare a meno di pensare che, pur se con
terminologie diverse, possiamo trovare “tracce di Hara” (o di
qualcosa di molto simile) anche in altre Vie di trascendenza (o in
altri cammini religiosi, per usare parole più semplici e più
adeguate alla nostra cultura e alle nostre tradizioni).
Nel suo libro Bendowa (Il cammino
religioso – ed. Marietti) scritto nel 1231, Dogen, il Maestro Zen
fondatore della Scuola Soto, raccomanda di affidarsi completamente
alla forza dell’Universo che tutto sostiene. Affidandosi, nella
pratica dello zazen, a questa forza “si dischiude tutta
l’ampiezza e la profondità del mondo senza limiti”. La
traduzione letterale di Bendowa significa ‘Sulla pratica della
Via’, e contiene il cuore dell’insegnamento di Dogen. Nella
pratica concreta di assumere con il proprio corpo la posizione seduta
della meditazione zen (zazen) è possibile affidarsi a questa grande
forza trascendente. Scrive Dogen:
“A chiunque sin dalla nascita è dato
con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il
‘Sé originale’ genuinamente. Però, se non passa attraverso il
fare praticamente proprio zazen, quel principio non appare
manifestato e se non si evidenzia nello zazen in realtà non lo si
ha. Solo la pratica effettiva dello zazen è direzione e forma
fondamentale del vivere in modo autentico il Sé originale.”
Questo è quello che Dogen chiama
“l’insegnamento misterioso e sottile trasmesso da tutti i Buddha
e i Patriarchi”. In questo senso, e con questa visione delle cose,
anche alcune affermazioni di Meister Eckhart, mistico cristiano
vissuto intorno al 1200, escono da quella genericità in cui troppo
spesso le consideriamo, per assumere una concretezza diversa. Per
fare un esempio: scrive Eckhart “Chi vuole penetrare nel fondo di
Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo
fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti nessuno
può conoscere Dio, se prima non conosce se stesso”. Forse, con queste parole, Eckhart vuole
proprio indicarci che esiste una possibilità di sperimentare
concretamente quel ‘contatto’ con qualcosa che possiamo pensare
come l’origine stessa della nostra esistenza.
Per concludere, e tornando al pensiero
dal quale eravamo partiti, Hara viene proposta anche come una grande
forza di guarigione. Il Maestro (e medico taoista) Jeffrey Yuen, parlando di alcune diverse
modalità di intervento terapeutico, riconosceva
l’esistenza e la possibilità, tra queste, di una modalità del
tutto particolare, che lui definiva di tipo ‘sciamanico’. Una
modalità che è oltre l’abilità soggettiva del terapeuta e oltre
la condizione oggettiva del paziente. L’uso di questo termine
‘sciamanico’ non può fare a meno di rimandarci ancora una volta
alla capacità di sapersi affidare, da parte dell’uomo, a quelle
forze profonde e misteriose alle quali, come dice Von Durckheim
“l’Hara certamente lo apre”.
tratto da http://www.altrogiornale.org/hara-la-forza-dellenergia-originaria-massimo-beggio/
tratto da http://www.altrogiornale.org/hara-la-forza-dellenergia-originaria-massimo-beggio/
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